Piscedda: "Ragazzi, studiate! Maggiore è l'esempio da seguire"

Un decennio alla guida delle varie giovanili azzurre. Dall’Under 16 fino all’Under 20, dal 2001 fino al 2011. In quanto a ragazzi italiani, Massimo Piscedda, per usare un eufemismo, ne sa qualcosa. Nel 2015 si concretizza una sfida tanto affascinante quanto stimolante, guidare l’Italia alle Universiadi in Corea del Sud. La sintesi perfetta tra studio e calcio, un filone che La Giovane Italia ha iniziato ad affrontare con Claudio Gabetta, tecnico dell’Under 18 del Parma, proseguendo poi con le parole di Roberto Venturato, allenatore del Cittadella. La terza puntata vede come protagonista proprio Massimo Piscedda...
Mister, ci racconti del suo meraviglioso percorso a tinte azzurre.
“Mi piaceva, mi intrigava quell’occasione, sono stato fortemente supportato e decisi di accettare volentieri l’incarico. Durante il periodo in cui stavamo allestendo la rosa rimasi deluso dallo scarso numero di giocatori professionisti iscritti all’università. Con grande gioia posso però dire che quei pochi sono stati una sorpresa, tanti di loro li conoscevo bene avendoli allenati negli anni precedenti e ne venne fuori una buona squadra. Ricordo con enorme piacere l’organizzazione di quel torneo, eccellente sin dalla presentazione, sembrava di stare alle Olimpiadi. Nella fase a gironi giocavamo bene e vincevamo, i ragazzi si divertivano, io non ero da meno. Perdemmo solamente contro i padroni di casa della Corea del Sud. Dissi ai miei ragazzi che se li avessimo rincontrati più avanti nella competizione li avremmo battuti senza problemi. Il caso volle che ce li ritrovammo in finale e le mie parole diventarono realtà. La vittoria del torneo è stata la ciliegina su un percorso splendido che ad oggi mi provoca ancora tantissime emozioni. Le soddisfazioni continuarono anche ngli anni successivi, quando pian piano scoprivo di quei meravigliosi ragazzi che uno dopo l’altro si laureavano portando a termine il percorso di studi”.
Quale problematiche riscontra nel calcio italiano giovanile di oggi?
“I problemi sono due e si rincorrono sempre: essendoci molti stranieri, purtroppo tanti ragazzi del nostro paese hanno meno chance. Non che sia contro innesti provenienti da altre nazioni, se un ragazzo straniero merita e la società lo reputa un valore aggiunto è giusto che venga fatto un investimento. D’altra parte però, non tutti si rivelano fenomeni, allora a parità di potenzialità credo sia doveroso credere nei nostri giovani. Un’altra piaga del calcio nostrano sono tanti ragazzi che appena si affacciano in prima squadra iniziano a montarsi la testa, assumono atteggiamenti da calciatori già fatti, non è quella la strada. Bisogna rimanere umili. Un paio di partite in Serie A non fanno di te il nuovo crack del pallone”.
I settori giovanili sono abbastanza attenti al percorso scolastico dei ragazzi?
“Questo è un discorso a cui tengo molto. Le statistiche parlano chiaro, un calciatore su 20.000 arriva a calcare palcoscenici di una certa importanza, gli altri rimangono fuori, per cui un vivaio deve innanzitutto formare uomini, prima che giocatori. Se un giovane non riesce a diventare professionista dovrà intraprendere un’altra strada, per questo è importante mantenere sempre una certa attenzione nei confronti della scuola e soprattutto, non abbandonare gli studi. Fortunatamente, poi, abbiamo alcuni esempi di ragazzi virtuosi che oltre ad essere studenti sono anche ottimi calciatori. Penso a Giulio Maggiore che rifiutò il Mondiale Under 20 per sostenere l’esame di maturità, nonostante la decisione di rinunciare ad un’esperienza importantissima per un’altra altrettante fondamentale, è diventato lo stesso un calciatore di Serie A e si è diplomato: che c’è di meglio?”.
Le è mai capitato un giovane che ha chiesto di saltare un allenamento per studiare?
“Magari! Non mi è mai successo. Personalmente, invece, da giovane qualche volta mi è capitato. Ci tenevo ad andare bene a scuola, giocavo e allo stesso tempo studiavo. Il calcio mi toglieva dalla strada e spesso ci dimentichiamo della forza che lo sport può avere in ambito sociale. Oggi un ragazzo pare non possa giocare per puro divertimento, deve per forza diventare un professionista; a proposito di ciò credo che i genitori siano i primi responsabili. Mi rendo conto che riversano i propri fallimenti nei confronti dei figli, schiacciandoli sotto pressioni assurde ed immotivate. Di conseguenza, poi, vediamo tanti ragazzi che studiano poco e lasciano presto la scuola per concentrarsi solo ed esclusivamente sul calcio, ma che significa? Si può tranquillamente studiare e giocare allo stesso tempo. A questo proposito tengo a ringraziare La Giovane Italia che s’impegna e si preoccupa di questi problemi, di sensibilizzare, di scandagliare il settore giovanile come crescita individuale dei ragazzi, in campo e soprattutto fuori”.
