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Roberto De Zerbi si racconta: coerenza, coraggio e calcio tra Marsiglia e Brescia

Roberto De Zerbi si racconta: coerenza, coraggio e calcio tra Marsiglia e BresciaTUTTO mercato WEB
ieri alle 14:15Serie A
di Luca Bargellini

Ospite del podcast 'Supernova', condotto da Alessandro Cattelan, il tecnico dell'Olympique Marsiglia, Roberto De Zerbi, ha parlato della sua esperienza in Francia e non solo: "Non credo si possa parlare propriamente di ferie per quanto mi riguarda. Diciamo che la stagione è finita e stiamo programmando quella nuova: dalla campagna acquisti-cessioni, passando per il ritiro e l'organizzazione interne".

Come funziona il mercato?
"Ci deve essere una connessione diretta con il ds, che è l'elemento di contatto fra il tecnico e la società. Poi una volta chiarito quali sono gli obiettivi in base al budget ci muoviamo. A volte segnalo dei nomi io, altre volte è il ds. In più c'è un mio scout che lavora per il Marsiglia e si cerca di trovare tutti insieme la soluzione migliore".

Com'è Luis Henrique, l'ultimo acquisto dell'Inter?
"Bravo giocatore. San Siro è San Siro ma anche il 'Velodrome' di Marsiglia in quanto ad ambiente non scherza. Ha forza fisica, qualità tecniche, un bravo ragazzo: un bell'acquisto. Bisognerà capire come approccerà alle tre partite in una settimana perché non le ha mai dovute affrontare".

Ha detto che lei è stato il miglior allenatore della sua carriera...
"L'allenatore cerca di aiutare il calciatore dandogli fiducia e mettendolo nella posizione migliore. Lui è un ragazzo di Rio de Janeiro e ha bisogno di affetto. Il bello del lavoro dell'allenatore non è solo lavorare sul campo, ma anche lavorare per entrare nella testa dei giocatori. Perché non puoi usare con tutti la medesima chiave di accesso e non sempre ci riesci. Con lui, tutta la società, abbiamo fatto un buon lavoro. Siamo stati obbligati a fare una cessione di questo tipo, di un giocatore importante, un titolarissimo".

Essere uguali con tutti per un tecnico non è più l'atteggiamento giusto nella gestione di un gruppo?
"Io cerco di essere uguale con tutti nel rispetto, nella trasparenza, nella coerenza fra ciò che dico e ciò che faccio. Poi non puoi trattare tutti allo stesso modo. Con i calciatori più anziani devi rispettare la loro storia, la loro anzianità. Tutti hanno sensibilità e caratteri diversi e non puoi trattare tutti allo stesso modo. Il mio carattere, in questo, mi ha aiutato perché sono sempre stato portato a capire le persone. In più leggo tanto sul tema perché mi interessa tanto. Partendo sempre dal presupposto che non voglio e non devo piacere o andare d'accordo con tutti. Con i giocatori, però, mi viene più naturale avere empatia. Meno mi riesce con i club e i dirigenti, forse anche perché non lo vedo come uno dei miei doveri. Rispetto tutti, do l'esempio, ma fra i miei doveri non penso ci sia l'andare d'accordo con tutti. Il mio focus è legato al calciatore. In più c'è il pubblico: sono nato in curva e da lì mi porto dietro il rispetto che si deve alla maglia".

Quanto è cambiato il ruolo e il lavoro dell'allenatore rispetto al passato?
"Io sono partito dalla Serie D e ho fatto tutte le categorie. Nessuno mi ha regalato niente e non ho fatto il ruffiano con nessuno. Credo che il merito e la competenza paghi sempre. Farlo tenendo fede al proprio carattere, però, costa di più. Perché qualche volta vieni etichettato in un modo che ti da fastidio. Rispettare il proprio DNA, alla fine, però credo paghi sempre".

Parla tanto con i suoi giocatori?
"Se si aprono sì. Poi dipende da carattere a carattere. Con Mason Greenwood, ad esempio, credo di averci parlato due volte sole nella stagione. In quelle occasioni lui si è aperto e mi ha fatto capire che oltre quella maschera c'è una persona molto sensibile e ho capito che per gestirlo dovevo parlare col padre, persona spettacolare. Se uno non mi da aperture, invece, non lo obbligo a parlare. Il calcio, alla fine, è uguale ovunque e a qualunque livello. Cambiano le pressioni, i soldi e le aspettative. Ad un certo livello dietro ad ogni giocatore c'è un'azienda, ma anche una persona con la quale confrontarsi".

Parla anche di cose extracampo con i suoi ragazzi?
"A Sassuolo quando morì Maradona facemmo una riunione su di lui, per raccontare chi era stato e non solo come giocatore. Ma anche e soprattutto come persona. Lo stesso è accaduto quando è morto il Papa: eravamo a Roma e mi piaceva come persona. Così ho cercato di trasmettere quello che io avevo percepito di quell'uomo. Dentro lo spogliatoio cerco sempre di essere senza veli: dico quello che mi passa per la testa. Ai tempi delle superiori avevo un grande professore d'Italiano a Brescia che a volte fermava il programma delle lezioni per parlarci di ciò che accadeva in quel momento nel mondo. Questo modo di fare mi è sempre rimasto impresso. E cerco di parlarne con loro come farei come i miei figli. Mi piace renderli partecipi. In questo modo mi faccio conoscere ancora di più, al di là che tu possa essere apprezzato di più o di meno. Finissi oggi di allenare mi rimarrebbe indelebile nella memoria il rapporto con i miei giocatori".

Lo spogliatoio viene considerato un luogo chiuso, inviolabile, quasi sacro. Come si relazione quando escono fuori delle cose da quell'ambiente e arrivano all'opinione pubblica?
"A Marsiglia accade spesso. Nelle piazze dove c'è tanta pressione succede. Puoi immaginare come mi manda nei pazzi. Fino a prova contraria credo nella buona fede delle persone: se dovessi sapere qualcosa saltano le teste".

Che rapporto ha con la stampa?
"La comunicazione è importante per un allenatore e non mi riferisco a quella in campo. Questa è la prima intervista dopo due anni e mezzo in Italia. Questo perché sono caduto all'interno di una diatriba fra Daniele Adani che considero mio fratello e un gruppo di giornalisti italiani. Una volta un giornalista importante, con il quale ci siamo chiariti, mi disse che mi aveva attaccato per colpire Adani. È stata una cosa che mi ha dato molto fastidio: Daniele è mio fratello ma non dice cose che io gli suggerisco. Non la pensiamo sempre allo stesso modo ma mi ha dato molto fastidio l'atteggiamento della stampa. Avrei potuto chiamare per capire le motivazioni di quel comportamento oppure chiudermi. Mi ha fatto male quello che è successo ma cerco di andare avanti per la mia strada. Per parlare voglio avere davanti persone oneste, mentre in passato con me si sono comportati in maniera disonesta, incompetente, faziosa, prevenuta. Quando invece non c'era motivo per subire attacchi. Mi hanno fatto passare per ciò che non sono: mi hanno fatto passare come un filosofo quando invece sono tutt'altro. Nella mia vita ho litigato con chiunque. Quando parlano di me come di un integralista poi invece a 10' dalla fine potessi metterei due portieri oppure sia a Marsiglia che a Brighton o a Sassuolo ho giocato anche con la linea difensiva a cinque. So di essere divisivo, lo sono sempre stato, ma mi dispiace. Perché se lo sei per quello che dici o che fai va bene, mentre se mi si usa per colpire altri non mi piace".

Un altro tecnico che ricalca il suo profilo come modo di porsi è Daniele De Rossi.
"Siamo amici e poco tempo fa ha rilasciato una bellissima intervista al Corriere della Sera citando sua mamma. Gli ho mandato un messaggio dicendogli che volevo conoscerla. Le nostre figlie sono molto amiche perché studiano assieme a Londra. Mi piace molto come persona, come allenatore e per come comunica. Il mio modo di comunicare la scorsa settimana mi ha dato una soddisfazione grandissima. A Foggia, una città alla quale sono legatissimo perché ho fatto tre anni da giocatore e tre da allenatore durante i quali ho vinto una Coppa Italia di Serie e perso una finale playoff ho avuto la soddisfazione più grande che potessi avere che è la cittadinanza onoraria. Quel giorno ero molto emozionato e mi sono chiesto se dovessi comportarmi come mi sono sempre comportato o meno. Quando poi ricevi un premio simile e una città intera ti riconoscono un affetto simile e ti considerano un amico è un qualcosa d'impagabile. Mi danno di filosofo o dell'ingestibile viene annullato da un premio simile da una città con problemi sociali grandissimi ma anche tanta brava gente".

Da Foggia passiamo a Brescia: cosa accade quando una città viene privata di un pezzo fondamentale come la propria squadra?
"Mi ha chiamato il 'Giornale di Brescia' sulla scomparsa della squadra. Ho pensato se farlo o meno, rispettando Roberto che da piccolo andava in curva a vedere Hagi, Raducioiu e gli altri. Alla fine ho detto il mio pensiero per rispettare il me del passato, dicendo con sincerità quello che penso. Brescia è una città del nord ma ha la passione di una piazza del sud. Dopo gli ultimi anni tristi è pesante la situazione. La Giunta comunale si sta muovendo per cercare di capire se c'è la possibilità di una fusione con una delle tre realtà del territorio che sono nel calcio professionistico (Feralpisalò, Lumezzane e Ospitaletto, ndr). I tifosi, noi tifosi, ovviamente non vogliamo un altro nome, ma ci sono dei dipendenti che rischiano tanto sul piano personale e quindi bisogna valutare tante cose. Spero che possa essere preso da un appassionato: per Brescia non avere nessun industriale appassionato, avendo i Percassi a Bergamo, è qualcosa di pesante".

L'azionariato popolare può servire?
"Si può fare ma servono sempre gerarchie precise. Perché serve sempre chi comanda. A volte fai fatica a mettere insieme poche teste, immaginati quelle di un azionariato popolare".

Viste le difficoltà che continuano ad esserci nel mondo del calcio non è il caso che il sistema venga riformato?
"Le riforme sono obbligatorie, devono essere riviste le norme. Ma bisogna partire dalle persone. Puoi fare tutte le riforme che vuoi, ma le persone poi devono cambiare. Purtroppo Brescia si è scontrata con persone che già in precedenza avevano dimostrato poca competenza e serietà. Questa è una fine annunciata".

Facendo un passo indietro, rimanendo però legati alla città di Brescia. Com'è passare dall'essere tifoso di una squadra a scendere in campo con quella maglia?
"È una cosa invivibile. Quando la squadra andava in ritiro il giorno prima di una partita io ci andavo due giorni prima. Le pressioni sono altissime perché ricevi mille telefonate e le persone vogliono che tu trasmetta quel senso d'appartenenza alla squadra. Le stesse cose le ha vissute un altro mio amico, Emiliano Viviano, quando ha giocato nella Fiorentina. Lui mi ha detto le stesse cose. Non è la categoria che conta quando giochi per la squadra della tua città ma è la pressione che senti quando la indossi. Io ci ho pensato quando mi chiamarono dal Brescia. Ho accettato togliendomi soldi e tutto ma a distanza di anni ho capito di aver fatto bene. Sarebbe stato un rimpianto grandissimo non aver mai giocato a Brescia. Ho fatto bene all'inizio e alla fine di quell'anno. Come giocatore ho fatto una carriera mediocre un po' per colpa mia, un po' per gli infortuni e un po' per carattere nel rispettare le regole. Non sono mai stato un ribelle per scelta: a 14 anni sono venuto via di casa andando a Milanello e dovevo pensare a me. In più volevo sistemare la mia famiglia e mi autogestivo. Quando, poi, ti regoli da solo fin da subito quando cresci sai da solo cos'è giusto e sbagliato senza che nessuno lo dica per te".

Roberto De Zerbi padre. Com'è aver avuto due figli da giovane?
"Da calciatore fai tutto prima. Puoi permetterti di vivere da solo prima e di mantenere una famiglia. Ancora non ho capito se sia meglio o peggio per un calciatore mettere su famiglia da giovane: avrei voluto essere un po' più presente con i miei figli nei giochi, nella quotidianità. Il calcio non è solo giocare ma anche avere uno stile di vita per tutto l'anno e comporta non fare tutto quello che avrei voluto fare con loro. Ora mi sento un amico e ho un ottimo rapporto sia con mia figlia che ha 22 anni che con mio figlio. Ho viaggiato tanto per la mia carriera ma ho la coscienza pulita perché penso di aver fatto tutto quello che potevo per loro. Tanto che l'unico giudizio che soffro è il loro. Mia figlia è molto simile a me, esigente e diretta. È me solo che bionda e con i capelli lunghi. Mio figlio, invece, è più comprensivo".

Che rapporto si crea con le città nelle quali vive e ha vissuto?
"Marsiglia è un posto unico e speciale. Mi sono innamorato dell'OM grazie ad un mio vecchio tecnico del Milan: era il Marsiglia di Desailly, Papin etc. L'altra cosa che mi ha sempre affascinato è la narrazione della città, multiculturale, ma anche con grandi problemi sociali. Amo quella città, perché è contraddittoria in tante cose ma ti dà indietro tante cose che altre città non ti da. Come calore, come folklore e come bellezza. Senza connessione con la città faccio fatica ad esprimermi. Brighton, invece, è particolare ma molto passionale. Sono stato benissimo anche lì. Lungomare bellissimo, ma freddo e pioggia perenne. Gente bravissima, mi hanno voluto bene. Per questo ho sempre detto ai miei giocatori di conoscere la città per cercare la connessione con le persone, i tifosi".

Quanto sono un valore aggiunto i tifosi in termini di risultati?
"Possono essere un valore aggiunto o un freno. Ad inizio stagione il 'Velodrome' era un freno per tanti giocatori. Vincevamo fuori e in casa zoppicavamo. Poi abbiamo iniziato a parlarci, a parlare della gente di Marsiglia e piano piano si è creata la connessione giusta con il pubblico giochi sempre con un uomo in più. Tanto che nel girone di ritorno in Ligue1 siamo la squadra che ha fatto più punti in casa".

È importante avere in una squadra non solo della città, ma anche della Nazione?
"Dipende. Se hai un De Rossi e sei a Roma, ad esempio, è un valore aggiunto. Perché è una guida. Poi ci sono anche quelli che sfruttano la propria posizione per un interesse più personale".

Che esperienza è stata quella in Ucraina prima dello scoppio della guerra?
"Quando sono arrivato sapevo quello che leggevo sulla stampa. Lo Shakthar, inteso come società, fino a pochi giorni dallo scoppio della guerra trattava tutto come una sorta di 'big joke'. Una settimana prima del via del conflitto eravamo ad Antalia in Turchia perché il campionato era fermo per la pausa invernale e i brasiliani che si allenavano così così. Abbiamo fatto una riunione con tutti e capimmo che avevano paura. Così chiamammo il dg e il ds e loro hanno rassicurando tutti che era solo una dimostrazione di forza, ma che non c'era niente di serio. Io invece leggevo altre cose dall'Italia. Quando tornammo in Ucraina abbiamo ripreso ad allenarsi in vista di una gara a Karkiv e l'aria era già pesante. In ufficio avevamo una cartina di Kiev dov'erano segnati i percorsi per lasciare la città nel modo più sicuro possibile. Quando è scoppiata la guerra ci trasferimmo nel bunker dell'hotel del club. Siamo stati cinque giorni chiusi lì dentro, poi grazie a Ceferin, al presidente Gravina e al presidente della Federcalcio ucraina ci hanno dato i mezzi per venire via. È stata tosta".

Tornando al calcio, è riuscito a metabolizzare il fatto che l'Italia abbia saltato due Mondiali consecutivi?
"Da italiano che lavora all'estero fa ancora più male. Ti prendono per il culo per una cosa simile. Da quello che si sente, però, la penso diversamente. Questo è un periodo storico dove facciamo fatica a sfornare giocatori di un certo livello. Si starà sbagliando qualcosa o di dire di chi è la colpa. Sicuramente non è colpa degli allenatori che passano da quella panchina, perché di cose diverse può fare poco. Non è più il tempo di Totti, Del Piero, Inzaghi, Miccoli, Vieri, Di Natale. Oggi le ha la Francia e la Spagna: noi abbiamo qualche giocatore forte come Barella, Bastoni, Tonali, Locatelli, ma per il resto facciamo fatica ad avere giocatori di alto livello. Con la Norvegia sembrava che la squadra non avesse neanche amor proprio ma anche quello fa parte del livello di un giocatore. L'Italia è andata in Norvegia trovando un clima diverso e una squadra forte, con elementi come Haaland, Odegaard e Nusa che la nostra Nazionale non ha e con il campionato finito da poco, una finale di Champions League persa, preparare quella partita è difficile da preparare. A parte 4/5 calciatori si fa fatica a trovare talento. Il livello oggi è basso ed è colpa di tutti quelli che fanno parte del sistema".

Quest'anno in Italia sono cambiati tanti allenatori in Serie A. E ad un certo punto si era parlato di De Zerbi all'Inter...
"Se n'è parlato ma non mi hanno mai chiamato. Anche perché io è già diverso tempo che ho iniziato a pianificare il lavoro con l'O.M., visionando giocatori e dialogando con la proprietà. Ho preso un impegno e volevo mantenerlo. Con la società, la squadra, la città e i tifosi. Nella vita non si sa mai ma per adesso sto bene dove sono".

C'è una squadra che reputa irresistibile?
"No perché non sarebbe corretto. Quello che conta per me è il rapporto: se non ho rispetto e onesta anche se ho un contratto me ne vado. Se però queste cose ci sono io mantengo l'impegno. A meno che non lo si dica in tempo. Non lascerei mai solo perché mi chiama una squadra più bella. Il calcio per me è qualcosa di più grande: sono di Brescia e tifo Brescia che se va bene il prossimo anno giocherà in Serie C, ma non è che cambio squadra perché gioca in C o in Eccellenza".

Ha visto la finale di Champions League?
"No ero a Torino per il concerto di Vasco. Quando c'è lui si ferma tutto. Vasco Rossi mi emoziona anche più del calcio: mi fa piangere, pensare. Non voglio conoscerlo. Quando ero a Sassuolo mi hanno chiesto se volevo incontrarlo e ho detto di no perché non voglio rimanere deluso perché magari non li trovi nel momento giusto, o perché sono timidi. E poi mi emoziona vedere il suo pubblico perché ci sono dentro almeno tre generazioni".

Cos'è successo in quella gara? Il 5-0 è stato un risultato strano...
"Il risultato è stato strano. L'Inter è una grande squadra e Inzaghi è un grande allenatore e non ci sono cinque gol di scarto. Il problema è che in Italia non si conosceva il PSG che è stata presuntuosa e l'hanno sottovalutato. Io purtroppo conoscevo quella squadra, quei giocatori e che Douè è del livello di Yamal anche se ancora non così decisivo. Così come Vitinha probabilmente è il centrocampista più forte al mondo in questo momento e tanti altri. Questo ha portato ad un brusco risveglio".

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